Il dibattito contemporaneo sull’intelligenza artificiale sta sempre più esplorando l’impatto che questa tecnologia ha nel plasmare il mondo che abitiamo. Le nuove forme di colonialismo ed estrattivismo, tanto a livello hardware quanto software, ne sono una manifestazione chiara: l’estrazione di litio e la produzione di chip nei Paesi del Sud Globale, da un lato, e la raccolta e commercializzazione di dati personali gestiti da colossi aziendali, dall’altro. Tuttavia, queste dinamiche vengono spesso ignorate o messe in secondo piano per ragioni economiche o di convenienza politica. Il filosofo Luciano Floridi ha evidenziato come le tecnologie emergenti non si limitino a inserirsi nel nostro contesto, ma lo trasformino radicalmente, dando luogo a una “re-ontologizzazione” del mondo. Così come lo spazio domestico viene progettato per ospitare elettrodomestici come la lavastoviglie, anche le nostre città e le nostre vite si organizzano attorno all’AI: videocamere di sorveglianza popolano gli spazi pubblici, i dispositivi mobili sono sempre più geolocalizzati e gran parte della nostra esistenza sociale si è spostata online. Tutto questo serve a raccogliere enormi quantità di dati, necessari per migliorare i modelli AI e rendere i sistemi sempre più sofisticati.

Ma cosa succede quando l’IA viene usata non per fini utilitaristici, ma per scopi creativi, modellata dalle persone che ne fanno uso? Esistono alternative alla visione dominante del rapporto tra AI e contesto? In questo senso, l’arte offre una prospettiva diversa, esplorando da decenni le possibilità creative offerte dagli algoritmi. Già dagli anni ’60, si iniziava a sperimentare con macchine capaci di generare dipinti, composizioni musicali e testi, che seguivano istruzioni predeterminate ma producevano risultati inaspettati e originali. Questa tendenza continua oggi su una scala di complessità decisamente superiore: strumenti come DALL·E per la creazione di immagini, Udio per la musica e ChatGPT per i testi dimostrano come l’AI stia diventando parte integrante del processo creativo, offrendo nuove possibilità espressive e sfidando le tradizionali modalità artistiche.

Negli ultimi anni, la riflessione sull’etica dell’intelligenza artificiale si è ampliata, soprattutto nell’ambito delle arti performative e installative. Questi contesti hanno permesso di sperimentare nuove modalità di interazione tra esseri umani e macchine, dove il codice eseguito in tempo reale dialoga con le azioni dei performer e del pubblico. Un esempio significativo è HERbarium di Kamilia Kard, in cui i movimenti delle danzatrici vengono tracciati da un sistema di AI per animare piante virtuali antropomorfe. Queste piante, a loro volta, influenzano e modificano i movimenti delle performer, creando una coreografia in continuo dialogo tra AI e corpo umano. Il risultato è una danza che nasce dall’interazione tra umano e tecnologia, con le piante proiettate che danzano sullo sfondo e completano un gioco simbolico. Questo triangolo tra piante tossiche, rappresentazione femminilizzata dell’AI e elementi esoterici diventa una critica sottile verso le narrazioni dominanti sulla figura della donna.

Parallelamente, altre opere hanno ampliato l’uso dell’AI a temi ambientali. Metabolo di Valerie Tameau, ad esempio, crea un parallelo tra le culture africane e gli ecosistemi marini. Tameau, danzatrice e performer, impersonifica Mami Wata, una divinità marina della tradizione equatoriale nata come risposta alla colonizzazione occidentale. I suoi movimenti sono accompagnati da una traccia sonora che cambia in tempo reale, modificata dai movimenti di banchi di pesci tracciati dall’AI tramite telecamere subacquee. Questo ambiente acquatico, ricreato attraverso proiezioni, diventa una potente metafora della violenza colonialista subita dalle popolazioni afrodiscendenti, come quella della tratta degli schiavi, e delle minacce attuali a cui sono esposti gli oceani, come l’inquinamento acustico e ambientale. Le opere di Kard e Tameau mostrano come l’IA possa essere usata non solo per riflettere sul rapporto tra uomo e macchina, ma anche per offrire prospettive critiche su tematiche sociali e ambientali.

L’adozione dell’intelligenza artificiale ha portato alla nascita di un fenomeno noto come “violenza algoritmica”, ossia l’imposizione di pregiudizi e valutazioni distorte attraverso i risultati generati dai sistemi di IA. Gli algoritmi, infatti, non sono neutri: riflettono le limitazioni e i bias preesistenti nei dati su cui vengono addestrati. Ciò ha portato a discriminazioni di genere e razziali in diversi settori. Ad esempio, in ambito lavorativo e sanitario, gli algoritmi tendono a favorire profili specifici, spesso uomini bianchi, relegando le donne e le minoranze a posizioni svantaggiate.

Un’altra forma di violenza algoritmica si manifesta nei social network, dove i contenuti mostrati agli utenti sono selezionati in base alle loro ricerche e interazioni precedenti. Questo porta a una sorta di “gabbia informativa”, in cui vengono proposti prevalentemente contenuti polarizzanti o aggressivi, poiché tali informazioni sono quelle che più facilmente catturano l’attenzione. Il risultato è un rafforzamento di stereotipi e una maggiore divisione sociale, con conseguenze profonde sul dibattito pubblico e sulla capacità di avere una visione equilibrata della realtà.

Possiamo affermare che i bias cognitivi degli esseri umani e quelli induttivi degli algoritmi si sovrappongano, influenzando reciprocamente il modo in cui interpretiamo e utilizziamo le tecnologie intelligenti. I primi derivano dalle caratteristiche che selezioniamo nell’ambiente circostante, spesso a causa di fattori culturali, mentre i secondi riflettono le approssimazioni che i software compiono per raggiungere i loro obiettivi, basandosi su database creati a partire da contesti specifici.

Questa “violenza algoritmica”, che spesso amplifica pregiudizi e disuguaglianze sociali, ha ispirato rappresentazioni artistiche critiche nei confronti dell’IA. Un esempio è il ciclo Humane Methods del collettivo Fronte Vacuo, in cui l’ambiente performativo è plasmato direttamente dal processo di apprendimento della macchina. In Δnfang, ad esempio, una rete neurale tenta di raggiungere un obiettivo stabilito, e il fallimento del sistema nel farlo si manifesta attraverso il suono e la luce che si affievoliscono progressivamente. L’IA, così, diventa parte integrante di una narrazione in cui le relazioni tossiche tra i personaggi sulla scena sono parallele all’incapacità della macchina di raggiungere uno scopo.

Queste opere artistiche rivelano una dinamica di interazione tra l’IA e il contesto in cui viene integrata. Come suggerisce Luciano Floridi, non solo l’IA re-ontologizza gli ambienti in cui opera, ma anche il contesto artistico sta riplasmando il ruolo dell’IA, integrandola in riflessioni etiche e critiche. Mentre gli algoritmi generativi influenzano la creazione artistica, è l’arte stessa che trasforma l’AI in uno strumento consapevole e trasparente, in contrasto con gli usi più subdoli che ne vengono spesso fatti.

In questo quadro, il bias non è più un errore o una distorsione, ma un elemento deliberato dell’espressione estetica. Le opere che lo incorporano non solo criticano la standardizzazione della tecnologia, ma offrono agli spettatori una prospettiva nuova e strumenti per affrontare in modo più consapevole e critico le implicazioni del digitale. L’arte, quindi, non si limita a riflettere il mondo dell’IA, ma contribuisce attivamente a ridefinirlo.